La famiglia può essere considerata come un sistema complesso formato da diverse unità che, interagendo tra loro e con il mondo esterno, influenzano il sistema stesso. Appare comprensibile quindi come qualsiasi evento che coinvolga un membro di una famiglia immancabilmente si ripercuoterà su tutto il sistema.
Tutte le malattie, infatti, in particolar modo se ad andamento cronico e/o recidivante, modificano in qualche maniera il sistema famiglia. A differenza delle altre, però, la dipendenza tende ad assumere connotati e coloriture emotive molto forti.
In primo luogo, frequentemente la dipendenza di un congiunto ha ripercussioni concrete, sia di tipo economico che legale, su tutto il nucleo, per cui i familiari si ritrovano spesso a dover fare letteralmente i conti con ammanchi di denaro o con spese legali, con furti di oggetti cari, con udienze in Tribunale o convocazioni in Prefettura.
Oltre che con le questioni strettamente concrete, spesso i familiari si ritrovano a confrontarsi con importanti cambiamenti del congiunto affetto da dipendenza, cambiamenti di tipo comportamentale, ma anche emotivo, psicologico o psicopatologico, con alterazioni del tono dell’umore o, in qualche caso, persino sintomi psicotici (deliri e allucinazioni). Questo a volte ancor prima di venire a conoscenza del problema di dipendenza.
Inoltre, non deve essere sottovalutato il problema, tuttora molto presente, dello stigma sociale correlato all’uso di sostanze. Nel sentire comune, è ancora molto radicato il pregiudizio per cui la dipendenza rappresenta una scelta dell’individuo, un “vizio”, piuttosto che una vera e propria malattia, e il soggetto dipendente è visto come artefice diretto e responsabile di ogni fase della dipendenza (esordio, andamento e ricaduta). Quelli che per un clinico o un operatore delle dipendenze rappresentano chiari sintomi di malattia, vengono spesso vissuti dagli altri, familiari compresi, come debolezze o indici di scarsa volontà del soggetto di affrancarsi dalla dipendenza. I familiari possono avere il timore di essere coinvolti nel pregiudizio generale della malattia, in qualità di corresponsabili della stessa, e questo a volte può determinare una chiusura verso l’esterno, compresi gli ambienti di cura.
Pertanto, la “scoperta” che un proprio familiare è affetto da dipendenza può rappresentare un vero e proprio shock, un momento di crisi che scuote fortemente il sistema famiglia, alterandone gli equilibri, che inizialmente stentano ad essere ripristinati.
I vissuti emotivi dei familiari di un soggetto dipendente sono spesso ambivalenti, oscillando tra vissuti di colpa (“dove ho sbagliato?”) e colpevolizzazione del congiunto (“sei tu che non ti impegni!”), rimanendo incastrati in un loop in cui si alternano fasi in cui prevale un atteggiamento di ipercontrollo e momenti in cui invece prevale il bisogno di allontanare il problema e delegare all’esterno (ad esempio, ad una Comunità Terapeutica) la presa in carico dello stesso. La tendenza a mentire del paziente tossicodipendente innesca nel familiare vissuti emotivi intensi, con rabbia e perdita di fiducia nei confronti del proprio congiunto.
Allo stesso modo, l’angoscia che accompagna la notizia della tossicodipendenza di un proprio familiare può determinare reazioni di negazione del problema, con difficoltà, soprattutto nelle fasi iniziali, a riconoscere i segnali della presenza della malattia anche quando sono palesi, alternate, in fasi di ipercontrollo, alla tendenza a ricondurre qualsiasi comportamento alla malattia stessa, anche quando invece è da questa del tutto slegato.
Per questi motivi è importante ricordare che il problema che si sta affrontando è una vera e propria malattia, che coinvolge strutture cerebrali specifiche e che ha segni e sintomi specifici, come già affrontato nella sezione Conoscere.
È fondamentale quindi da una parte riconoscere i primi segnali di dipendenza nel momento in cui questa si instaura, dall’altra conoscere i servizi a cui rivolgersi per poter chiedere aiuto.
Innanzitutto, occorre sottolineare che il singolo (o episodico) uso di sostanze non comporta in sé una dipendenza e che la malattia si instaura in tempi piuttosto lunghi. Esiste quindi un continuum che, se da una parte non presenta chiari segnali di un problema, dall’altra rappresenta il momento ideale per intervenire.
I primi segni che il proprio congiunto possa aver sviluppato un problema di dipendenza possono essere:
- modifiche comportamentali
- tendenza a mentire di fronte a richieste dirette
- tendenza alla chiusura o al ritiro sociale
- ridotto funzionamento lavorativo o scolastico
- alterazioni del tono dell’umore
- alterazioni del ritmo sonno-veglia
- perdita di peso
- graduale perdita di interesse verso ciò che in precedenza piaceva, fino all’apatia
- spesa ingiustificata di grosse somme di denaro
Tali segnali possono non essere presenti tutti contemporaneamente e, soprattutto in fase iniziale, possono essere sfumati. Motivo per cui non bisogna colpevolizzarsi se non ci si accorge subito del problema.
L’adolescente poi merita una menzione a parte. Se nell’adulto le modifiche comportamentali, soprattutto se rilevanti e repentine, sono spesso segnali di un problema (anche quando non si tratta di dipendenza), nell’adolescente il velo che separa i tratti di un’adolescenza fisiologica da quella con segni di disagio, fino a franchi segnali di patologia, è sottilissimo. Quindi è importante evitare di sottostimare, ma anche sovrastimare i problemi. Allo stesso tempo, però, l’adolescenza rappresenta una finestra di vulnerabilità critica per i disturbi da uso di sostanze.
Gli adolescenti sono “biologicamente tarati” per la ricerca di nuove esperienze e del rischio.
Numerosi sono i fattori che influenzano l’uso di sostanze negli adolescenti: la ricerca di nuove esperienze, il tentativo di affrontare i propri problemi o di migliorare le performance scolastiche o anche la semplice pressione tra pari.
L’importanza del dialogo
È assodato che la qualità delle relazioni e della comunicazione tra figli e genitori è un importante fattore di protezione rispetto al consumo di sostanze psicoattive e di prevenzione del consumo problematico.
Legami forti e positivi, un dialogo aperto e costruttivo, la fiducia ma anche la costante supervisione delle attività e delle frequentazioni dei figli, la capacità di gestire con calma i conflitti nella comprensione delle loro emozioni (ma contemporaneamente nel rispetto delle regole di condotta familiare) rappresentano tutti importanti fattori di protezione, sia rispetto alla sperimentazione che al consumo. Il ricorso a norme familiari chiare ed esplicitate fin dall’infanzia, a contrasto dell’uso delle sostanze sia legali (alcol, tabacco, psicofarmaci non prescritti) che illegali, rappresenta un fondamentale fattore di protezione. Il confronto con il figlio/la figlia può anche far comprendere ai genitori se la sostanza viene utilizzata non solo per “divertimento” o “perché così fanno tutti”, ma anche per una sorta di “automedicazione”, ossia per confrontarsi con vissuti negativi (tristezza, ansia, scarsa autostima, vuoto interiore, difficoltà a socializzare con i coetanei), che quindi devono diventare oggetto di attenzione per valutare la presenza o meno di un disturbo psichico o psichiatrico che richieda un intervento specialistico medico o psicologico.
In ogni caso, sia che si tratti di un figlio adolescente sia che si tratti di un altro congiunto adulto, il familiare può rappresentare una valida risorsa oppure un reale ostacolo (sebbene in buona fede) al percorso terapeutico del paziente. Per tale motivo, appoggiarsi a professionisti competenti diventa un passaggio necessario nel percorso terapeutico del proprio congiunto.
Spesso parlare dei propri dubbi con il pediatra o il medico di famiglia può essere un primo passo utile per trovare adeguato confronto ed eventuale prescrizione di valutazione specialistica (neuropsichiatrica infantile, psichiatrica o del medico del Ser.D).
Falsi miti riguardo il trattamento
Spesso il familiare che accompagna un paziente tossicodipendente presso un servizio per intraprendere un percorso di cura si ritrova a scontrarsi con alcune aspettative erronee:
- una volta iniziato il trattamento, la persona dipendente non userà mai più sostanze
- gli equilibri ritorneranno quelli che erano prima dell’insorgenza della malattia
- nel momento in cui la persona accetta di iniziare un trattamento, gli altri membri della famiglia staranno bene
- la crisi è finita!
Proprio per la natura recidivante della malattia, e proprio perché il trattamento prevede un percorso di cura che passi per un cambiamento, si intuisce come tali aspettative siano di fatto irrealizzabili. Il percorso avrà diverse fasi e il sistema famiglia dovrà trovare, con l’aiuto dei professionisti, un equilibrio nuovo.
Il SER.D a supporto della famiglia
I familiari preoccupati rispetto all’uso di sostanze psicotrope, oppure preoccupati di cambiamenti comportamentali sospetti, possono trovare nel Ser.D. un luogo dove esprimere i propri timori e i propri dubbi, rivolgendosi a professionisti esperti in grado di fornire consulenza sul medio-lungo periodo e aiuto specialistico.
L’accoglienza dei familiari (che possono accedere al Servizio autonomamente e anche se la persona che sembra avere problemi di sostanze si rifiuta di presentarsi) avviene nel più breve tempo possibile e in condizioni di massima riservatezza.
Già in occasione del primo contatto, chi accoglie i familiari raccoglie la loro domanda e ne dà un prima lettura, acquisisce dati utili ad un iniziale e temporaneo inquadramento del problema riportato e dà una informazioni sull’organizzazione del Servizio e le sue offerte di trattamento.
Questa fase iniziale può rappresentare per la famiglia un momento importante, perché finalmente i suoi membri possono sentirsi non più soli ma anzi sostenuti e assistiti nel fronteggiare il problema portato, senza peraltro sentirsi giudicati, colpevolizzati o stigmatizzati.
Leggi anche la sezione IL PERCORSO DI CURA NEI SER.D