«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»
(comma 3° dell’art. 27 della Costituzione Italiana)
Il 31 dicembre 2021 presso gli istituti penitenziari erano presenti 54.134 detenuti, il 35% dei quali (18.884) per aver commesso reati in violazione del DPR n. 309/1990: tra questi ultimi la maggior parte (63%) aveva commesso reati inerenti alla produzione, al traffico e alla detenzione di sostanze stupefacenti (art. 73 DPR n. 309/1990), il 5% inerente all’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 DPR n. 309/1990), e il restante 32% a entrambi i reati. Nel complesso, dal 2014 la quota di persone detenute per reati droga-correlati rimane sostanzialmente stabile (fonte: Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia anno 2022 – dati 2021).
«Nel 2021 il 28% della popolazione carceraria ha un Disturbo da Uso di Sostanze, percentuale in crescita nell’ultimo quadriennio. Stabile (33%) la percentuale di persone detenute tossicodipendenti di nazionalità straniera sul totale della popolazione carceraria tossicodipendente. Circa il 36% sono persone tossicodipendenti entrate dalla libertà. La componente femminile si attesta al 3,3%. La nuova utenza e i cittadini stranieri in carcere sono in media più giovani del totale delle persone detenute tossicodipendenti. Oltre la metà dell’utenza ristretta è assistita per uso primario di cocaina o crack. Gli oppioidi sono al secondo
posto, più frequenti nell’utenza femminile mentre l’uso primario di cannabis è riferito dal 14% della nuova utenza e dal 10% delle persone detenute di genere maschile e da quelle di nazionalità straniera» (ibidem, pag. 274).
Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione degli articoli 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 sono i fascicoli per droghe che intasano i tribunali italiani, costantemente negli ultimi quindici anni (Tredicesimo Libro Bianco, 2022).
Rivolgendo lo sguardo al passato, lontani appaiono gli effetti della sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), così come guardando al futuro altrettanto distante sembra essere la fattibilità dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Il termine ultimo del 24 maggio 2014, infatti, imposto dalla Corte Europea nella sentenza del 2013, finalizzato a ridurre la presenza della popolazione carceraria dei tossicodipendenti, sembra essere ad oggi disatteso.
Accanto agli interventi volti a ridefinire la rilevanza penale del consumo personale e del carico sanzionatorio di alcuni reati, sarebbe opportuno ai fini terapeutici e della possibilità di recidiva rivedere l’ingresso nel circuito penitenziario di persone alcol- e/o tossicodipendenti, evitando che lo stesso si verifichi già nella fase cautelare, anche e soprattutto rimodulando il complesso dei reati caratterizzati da una presunzione, relativa, di pericolosità ai sensi dell’art. 275, co. 3, c.p.p. e chiedendo al Magistrato una più attenta lettura dell’offensività della condotta, auspicabilmente caso per caso.
Secondo i dati del Tredicesimo Libro Bianco, infatti, è tossicodipendente oltre il 35% di quanti entrano in carcere, mentre al 31/12/2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale, più di 1000 oltre il dato dell’anno precedente.
Si tratta di una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,65%), di gran lunga superiore a quella della Confederazione Russa (28,6%). Dei 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021, sono 11.885 i presenti ex art. 73 (spaccio) del DPR 309/90. Si presenta in aumento (5.971 presenze) il dato relativo all’associazione con l’art. 74, così come quello dei ristretti esclusivamente ex art. 74, per la prima volta sopra ai mille (1.028).
Nonostante, dunque, la sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 25 febbraio 2014 in merito alla legge n. 49 del 2006 e il decreto legge n. 146 del 24 dicembre 2013, convertito nella legge n. 10 del 21 febbraio 2014 – Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria – che ha nella sostanza sostituito il testo del quinto comma dell’art. 73 del DPR 309/90, trasformando il fatto di lieve entità da circostanza attenuante ad effetto speciale ad ipotesi autonoma di reato, salvo che lo stesso “costituisca più grave reato…”, il massiccio ricorso alla detenzione in carcere non sembra essersi attenuato.
A tal proposito, sarebbe il caso di chiedersi con senso della realtà quanto il carcere rappresenti un deterrente rispetto alla recidività delinquenziale e che ruolo possa giocare in merito alla cura della dipendenza patologica.
Studi in proposito hanno dimostrato come i tassi di recidività siano più elevati per la pena detentiva in generale. Secondo una ricerca italiana di qualche anno fa, il 68% di soggetti che ha scontato una pena di questo tipo ha reiterato le proprie condotte criminali nell’arco dei cinque anni successivi (Leonardi, 2007).
Bertelli nel 2011 ha scritto, oltre che della capacità criminogena dell’ambiente carcerario, anche di una sorta di riduzione della sensibilità del detenuto rispetto all’afflittività della pena stessa, come a dire che la spinta intimidatoria decresce con l’aumento della frequentazione di un certo contesto. Lo stesso ha tradotto il dato secondo cui i soggetti tossicodipendenti interrompono la carriera tossicomanica non per una valutazione della gravità della condotta, ma per una sorta di perdita del potere di attrazione e di trasgressività della sostanza stessa, in concomitanza naturalmente con altri fattori come la perdita degli affetti, del lavoro, del ruolo sociale.
Il carcere non è il luogo deputato alla cura della tossicodipendenza, pur intercettando, suo malgrado, un numero di consumatori ricreativi e/o di dipendenti patologici superiore a quello dei Servizi specialistici stessi. È altrettanto innegabile, però, proprio sulla scorta di questa specifica prerogativa, che il luogo della detenzione possa tradursi in un’indubbia occasione di aggancio terapeutico nonché di vera e propria presa in carico per i Servizi intra- ed extra murari.
La riforma della sanità penitenziaria del 2008, con il transito della sanità e delle relative competenze alle Regioni, oltre a determinare significative differenze organizzative su tutto il territorio nazionale, ha evidenziato numerose – alcune piuttosto vistose – criticità a proposito di carcere e tossicodipendenza sintetizzabili, sia pure fuori da impraticabile esaustività, in:
- il linguaggio, la semiotica, il senso del lavoro sanitario non possono dirsi uguali a quelli dell’ambito della pena e della detenzione. Sarebbe interessante verificare le percezioni e i saperi di quanti lavorano nel carcere a proposito di dipendenze patologiche (chi è il tossicodipendente, a cosa serve il metadone, cosa significa craving, ecc.), compresi anche quelli di altri operatori sanitari che si rapportano con il detenuto tossicodipendente (Distretto, Dipartimento di Salute Mentale, ecc.). Da qui la necessità prodromica rispetto a qualsivoglia iniziativa di formazione specialistica e sensibilizzazione alla tematica;
- il personale del carcere non dovrebbe orientare, suggerire, valutare in merito a ciò che farebbe bene a restare nell’alveo delle considerazioni degli specialisti della salute, sia pur intesa in chiave sistemica. A tal proposito si ricorda l’imprescindibilità della supervisione tecnica esterna per i gruppi che lavorano a più stretto contatto con il detenuto tossicodipendente;
- le istanze sicuritarie spesso confliggono con le esigenze di cura, fino ad inficiarle (timore di “diversione” dei farmaci somministrati e, dunque, incoraggiamento verso terapie a scalare, eccesso di prescrizione di psicofarmaci, ecc.);
- l’individuazione e la diagnosi dello stato di tossicodipendenza, nonostante la cancellazione della Legge n. 49 del 2006, appaiono ancora troppo legate ad aspetti biomedici e molto meno alle pur necessarie valutazioni di tipo psico-socio-educativo;
- l’azione di osservazione e sostegno nel primo periodo della detenzione, nel corso della stessa e a conclusione della carcerazione (e della pena più in generale) risulta spesso priva di concertazione (sostegno psicologico all’ingresso, valutazione multidimensionale, dimissioni senza affidamento di terapia, nel corso del fine settimana quando i Servizi sono chiusi, totalmente sprovvisti di supporto per evitare episodi di overdose, ecc.), nonostante non sia pensabile un’idea di cura a compartimenti stagni e per la sola durata della detenzione a fronte di una malattia cronica e recidivante come da definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Lexicon of alcohol and drug terms: http://whqlibdoc.who.int/publications/9241544686.pdf e nella pagina OMS dedicata all’argomento: http://www.who.int/substance_abuse/terminology/definition1/en/);
- è rilevante e dirimente la saltuarietà o l’assenza di specifiche iniziative atte a fornire risposte di supporto al craving che potrebbe presentarsi anche dopo lunghi periodi di astensione dall’uso di sostanze e per il quale la soppressione della libertà rappresenta già un vero e proprio trigger: «Il craving o comportamento tossicomanico è il comportamento incontrollato, focalizzato all’ottenimento della sostanza che ha prodotto e mantiene la dipendenza, qualunque sia il prezzo da pagare» (fonte: A. Tagliamonte e D. Meloni, Le basi biologiche della tossicodipendenza, http://www.sims.it/tagliam.htm);
È acclarato dalla letteratura scientifica più recente come un’appropriata somministrazione di farmaci sostitutivi riduca il numero di episodi di autolesionismo che vede spesso protagonisti i detenuti tossicodipendenti. Inoltre, l’eventuale terapia a scalare andrebbe eseguita senza fretta al fine di ridurre gli effetti dell’astinenza e del ricorso alle benzodiazepine (Fox et al., 2015).
Lo scalaggio e il processo di disassuefazione troppo veloce sono, infatti, cause di un’astinenza pesante che rischia di ingenerare nel detenuto tossicodipendente sfiducia nei confronti del trattamento, del medico prescrittore, del Servizio che rappresenta (Maradiaga et al., 2016; Rich et al., 2015).
Se, poi, la detenzione è di breve durata, sarebbe consigliabile dare seguito all’assunzione del farmaco sostitutivo con un trattamento a mantenimento che possa tenere al riparo la persona da episodi di overdose subito dopo la scarcerazione, permettendo una più agevole presa in carico presso i Servizi di residenza o territorialmente competenti.
È innegabile che l’istanza di sicurezza e quella trattamentale necessitino della separazione di questi particolari detenuti dalla restante popolazione ristretta attraverso la custodia attenuata, che renderebbe più facile, tra l’altro, il contrasto a fenomeni come la diversione dei farmaci sostitutivi e il loro misuso.
Allo stesso modo l’invio in Comunità Terapeutica non dovrebbe rappresentare l’alternativa al carcere, incoraggiata ad oltranza da chi opera all’interno dello stesso. Le valutazioni a tal proposito devono essere effettuate dalle équipe Ser.D. territorialmente competenti – che peraltro devono fare i conti con il budget messo a disposizione dal management strategico delle Aziende Sanitarie Locali, essendo le rette a carico del SSN attraverso le Regioni –, dai referenti delle Comunità Terapeutiche e dalla persona. Spesso, invece, l’invio viene effettuato dal Magistrato senza occasioni di confronto con i curanti e/o sollecitato dai referenti dell’istituto ospitante – spesso trattandosi di detenuti di difficile gestione.
Una particolare attenzione istituzionale, poi, sarebbe da orientare alle donne consumatrici/dipendenti patologiche presenti negli istituti penitenziari del nostro Paese, partendo da un approccio in controtendenza. La dipendenza patologica è quasi sempre stata tradotta come una condizione criminogena; per ciò che riguarda la donna dovremmo pensarla come non meno vittimogena.
Tra le tante, possibili proposte suggeribili al legislatore andrebbero indicate una formazione specialistica per gli operatori in campo, al fine di fornire informazioni tecniche e fondate su evidenze scientifiche, coinvolgendo gli stessi detenuti tossicodipendenti; una imprescindibile supervisione tecnica esterna; l’immediata presa in carico e sostegno multidimensionale (sanitario-clinico e psico-socio-educativo) da parte dell’équipe Ser.D. intramuraria tale da favorire la cura di sé e i percorsi di screening sulle possibili patologie alcol- e droga-correlati.
La digitalizzazione delle cartelle sanitarie – risolte le problematiche legate alle differenti realtà e alla privacy da tutelare – potrebbe favorire la stesura di puntuali “Protocolli dimittendi personalizzati” a cura dell’équipe Ser.D. intramuraria ed extramuraria perché, finita la detenzione (e la pena, si spera), non è detto si debba interrompere l’interesse per la salute della persona.
Inoltre, successivamente alla diagnosi operata dal personale specialistico Ser.D., andrebbe sollecitato un maggiore ricorso alle misure alternative – de plano rispetto al primo reato, fatti salvi casi eccezionali –, magari con la creazione di realtà intermedie (mondo della giustizia e mondo della salute), istituite ad hoc, finalizzate a una valutazione non solo sulla scorta di strumenti biomedici ma di un maggiore monitoraggio psico-socio-educativo all’ingresso, durante il percorso e all’uscita dallo stesso. La pedissequa esecuzione procedurale, preferita all’assessment di salute, l’impulso a rendere le regole sempre più precise, delimitando l’ambito delle possibili interpretazioni e rendendo le decisioni – che dovrebbero essere assunte caso per caso – certe e prevedibili non possono rappresentare una risorsa ma un limite a ciò che non dovrebbe prescindere dalla centralità della persona e del suo percorso.
Difficile non declinare tra i possibili ostacoli il problema connesso alla certificazione dello stato di dipendenza dei soggetti tratti in arresto o già detenuti, l’oggettiva carenza di risorse economiche, di personale – carcere e Servizi –, di conoscenze scientifiche, di sensibilità e motivazione.
A monte di ogni plausibile proposta, resta la necessità di rivedere l’approccio punitivo-sanzionatorio con una preliminare revisione della legislazione penale sugli stupefacenti e sul consumo degli stessi.
L’assenza di dubbi potrà appartenere al mondo delle procedure e della detenzione, non certo a quello della salute, dove la mancanza di assoluti dovrebbe rappresentare un’inderogabile base di partenza.
Bibliografia
1. Anastasia S. et al. (a cura di) (2022), La sfida democratica – Tredicesimo Libro Bianco sulle Droghe. Gli effetti della legge antidroga. Edizione 2022 sui dati 2021.
2. Bertelli B. (2011), L’influenza delle norme e delle sanzioni sui fenomeni di consumo e di dipendenza da droga, in “Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza”, 2, pp. 50-60.
3. Fox AD, Maradiaga J, Weiss L, Sanchez J, Starrels JL, Cunningham CO. Release from incarceration, relapse to opioid use and the potential for buprenorphine maintenance treatment: a qualitative study of the perceptions of former inmates with opioid use disorder. Addict Sci Clin Pract. 2015 Jan 16;10(1):2.
4. Leonardi F. (2007), Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, 2, pp. 7-26.
5. Lexicon of alcohol and drug terms: http://whqlibdoc.who.int/publications/9241544686.pdf e nella pagina Oms dedicata all’argomento: http://www.who.int/substance_abuse/terminology/definition1/en/)
6. Maradiaga JA, Nahvi S, Cunningham CO, Sanchez J, Fox AD, “I Kicked the Hard Way. I Got Incarcerated.” Withdrawal from Methadone During Incarceration and Subsequent Aversion to Medication Assisted Treatments, Journal of Substance Abuse Treatment, Volume 62, 2016, Pages 49-54,
7. Rich JD, McKenzie M, Larney S, Wong JB, Tran L, Clarke J, Noska A, Reddy M, Zaller N. Methadone continuation versus forced withdrawal on incarceration in a combined US prison and jail: a randomised, open-label trial. Lancet. 2015 Jul 25;386(9991):350-9.
8. Tagliamonte A. e Meloni D. Le basi biologiche della tossicodipendenza, http://www.sims.it/tagliam.htm